FOOD&WINEHotel

Bar, ristoranti, alberghi, quella Roma finita in ginocchio

I bar sono chiusi. Luoghi universali di ritrovo dell’umanità – per dirla con Umberto Eco – «sono terra di nessuno e di tutti», a metà tra tempo libero e attività professionale. Ci mancano da morire, la vita senza cornetto e cappuccino al bar è più vuota, ammettiamolo. Anche i ristoranti sono chiusi. Ed è un’altra tragedia. Per chi ci lavora ma anche per tutti noi, esseri umani cui manca un altro pezzo di convivialità. Niente di nuovo, peraltro. Il piacere dei banchetti, diceva Cicerone, non si misura con le squisitezze delle portate, ma dalla compagnia degli amici e dai loro discorsi.

E gli alberghi, i b&b, le case vacanze, sono quasi tutti con le luci spente. Non ci si può muovere, non vengono i turisti e i turisti non possiamo essere noi. Si dice che la vita è un viaggio e chi viaggia vive due volte. Vista la situazione bisogna tenersi stretta la prima delle due vite, per l’altra speriamo torni presto il tempo.I tre pilastri della (ex) ricca economia dello svago e del turismo, quelli identificati con la sigla Horeca, acronimo di Hotellerie – Restaurant – Cafè, stanno vivendo la crisi più inattesa e devastante della storia moderna.

A Roma, dove l’industria dell’accoglienza garantisce lavoro e reddito – direttamente e attraverso un vasto indotto – a centinaia di migliaia di addetti, il blocco prolungato delle attività rischia di impattare sull’identità stessa della città. Ci sono i taxi, gli autonoleggi, i fornitori di prodotti per alberghi, le lavanderie, le guide turistiche e così via. Un mondo variegato, complesso, una catena oggi arrugginita. Nicholas Christakis, sociologo e professore a Yale, nel suo libro, «Apollo’s Arrow: The Profound and Enduring Impact of Coronavirus on the Way We Live», sostiene che, come nei «ruggenti anni Venti», che seguirono la pandemia di Spagnola del 1918, la fine del Covid sarà l’inizio di un boom economico. In un’intervista al Guardian riportata da Dagospia, Christakis sostiene anche che non sono le azioni dei vari governi a rallentare le economie: è il virus che, come nelle pandemie del passato le fa crollare. «Anche quando non c’era nessun governo che dicesse: “Chiudi le scuole e i ristoranti”».

Insomma, debellato il virus, la voglia di vivere ridarà fiato all’economia, si tornerà a spendere, Roma tornerà ad essere una calamita di vita e bellezza per chi ci abita e per i turisti di tutto il mondo. Ma quante attività avranno intanto chiuso i battenti per sempre? Quanti imprenditori e lavoratori si saranno ritrovati a dover sopravvivere con gli scarsi e assai tardivi aiuti da parte dello Stato? Secondo stime Confcommercio, l’effetto combinato Covid-crollo dei consumi del 10,8% (pari a una perdita in Italia di 120 miliardi di euro sul 2019) ha causato la chiusura di oltre 390 mila imprese del commercio non alimentare e dei servizi di mercato nel 2020, fenomeno non compensato dalle 85.000 nuove aperture. Il saldo negativo, sul piano nazionale, è infatti di circa 305.000 imprese (-11,3%).

Sul fronte alberghiero, secondo i dati della Banca d’Italia, le attività del Lazio hanno perso nei soli primi sei mesi del 2020 due miliardi e mezzo di euro. Un impatto pesante se si considera che il turismo contribuisce al Pil regionale per il 22%. A fine anno, peraltro, il conto sarà assai più salato tenuto conto che la sola Roma, che fa il 90% delle presenze turistiche dell’intera Regione, avrà perso oltre l’80% delle presenze. Nelle solo strutture alberghiere (cioè senza considerare b&b e case vacanze), nei primi nove mesi 2020 sono state occupate solo 2 stanze su 10 (il tasso di occupazione è al 23%) rispetto alle 7 su 10 (74%) dello stesso periodo del 2019. Dei circa 1250 alberghi di Roma, in questi giorni ne sono aperti solo 150, con un tasso di occupazione medio delle camere del 15%. Molti sono chiusi da marzo. C’è poco da aggiungere.

E veniamo a bar e ristoranti. Il decreto approvato il 18 dicembre dal governo prevede ristori immediati per 645 milioni di euro per compensare le perdite di fatturato di ristoranti e bar per le chiusure del periodo natalizio. Il contributo viene dato a chi abbia già avuto sostegno con il decreto rilancio di maggio e non può essere superiore a 150 mila euro. Cifre che il direttore della Fipe-Confcommercio, Luciano Sbraga, ritiene del tutto insufficienti tenuto conto che la chiusura forzata di 14 giorni (10 in zona rossa e 4 in arancione) ha causato perdite per 190 milioni, più o meno 14 milioni al giorno (15 il giorno di Natale). A fronte di queste cifre, dei 645 milioni del decreto, fatte le separazioni fra le regioni, al Lazio sono stati destinati 40 milioni, più o meno 2.600 euro a locale: «Poca cosa». E Claudio Pica, presidente della Federazione italiana degli esercenti pubblici e turistici di Confesercenti, calcola che entro fine anno solo a Roma chiuderanno cinquemila aziende.

Il quadro complessivo è desolante e, come spesso accade nei momenti di crisi nel rimpallo di responsabilità e ragioni è difficile stabilire come e perché si è arrivati a questo punto. Sicuramente, come lamentano le imprese, gli aiuti da parte del governo sono stati tardivi e insufficienti sia per quantità che per le modalità di accesso. Il Governo difende il suo operato, ricordando che la difficile situazione della finanza pubblica non ha consentito aiuti a livello di altri paesi. Forse aveva ragione Ennio Flaiano: «Una volta credevo che il contrario di una verità fosse l’errore e il contrario di un errore fosse la verità». Oggi una verità può avere per contrario un’altra verità altrettanto valida, e l’errore un altro errore. Una cosa è certa: quando si potrà ripartire, avremo di fronte un’erta scoraggiante. Lo Stato dovrà almeno garantire un massiccio sfoltimento della burocrazia. Gli imprenditori sono pronti a fare la loro parte e ogni romano tornerà ad uscire di casa per vivere. Occorrerà far girare il denaro. Sperando che il mondo torni a desiderare almeno un viaggio nella città eterna.